Yamagata: un archivio dei documentari sul terremoto, tsunami e crisi nucleare dell’ 11 marzo 2011

311_yamagata_film_archive_opt

Yamagata è una cittadina ed una prefettura situata nella zona nord occidentale del Giappone, per intenderci dall’altro lato dell’arcipelago rispetto a dove l’11 marzo del 2011 il terremoto prima e lo tsunami poi colpirono e si scagliarono con una forza inaudita tanto da portare a quella crisi nucleare nelle centrali nucleari di Fukushima che ancora oggi non vede vie d’uscita. Ma Yamagata è anche la zona dove ogni due anni si tiene il più importante festival del cinema documentario asiatico, e aggiungerei anche un dei più importanti a livello internazionale, il Yamagata Internatinal Documentary Film Festival, fondato nel 1989 anche per volere di Ogawa Shinsuke, colui che forse più di chiunque altro ha plasmato la storia del documentario dell’arcipelago. Un festival che soprattutto nei primi anni della sua esistenza ha funzionato anche da volano per la comunità documentaristica asiatica (cinese e coreana, ma non solo) che molto si è ispirata in un momento particolare per il continente asiatico all’opera di Ogawa e del suo collettivo.

yidff2013poster_rgb-2

Ebbene, nell’edizione del festival del 2011 molto del programma fu dedicato inevitabilmente alle produzioni non-fiction scaturite dalla tragedia del terremoto e da quella conseguente di Fukushima, una crisi quella nucleare che colpì e che continua a colpire ancora oggi la prefettura di Yamagata in quanto la distanza dalle centrali nucleari non è poi così vasta. Soprattutto a livello umano poi il legame fra le due zone è molto forte in quanto molti dei rifugiati che sono scappati dalle zone colpite dallo tsunami o dal fallout nucleare hanno trovato ospitalità e riparo proprio a Yamagata. Il festival grazie anche alla collaborazione di Markus Abè Nornes, lo studioso occidentale che sta più di tutti aiutando a (ri)portare il documentario giapponese sulla mappa cinematografica internazionale, ha deciso di costituire un archivio con i film indipendenti sulla triplice tragedia, realizzati sia da giapponesi che da non giapponesi. L’archivio si propone quindi come una memoria collettiva dove poter vedere e studiare, anche a distanza di decenni, ciò che fu prodotto come conseguenza del terremoto e dello tsunami del 2011, al di là dei prodotti documentari televisivi che comunque hanno già un archivio tutto loro.
Per ora l’archivio consta di circa una sessantina di documentari, la lista la potete trovare qui. Come detto, ciò che piace e sembra importante di questa iniziativa è il suo puntare su tempi lunghi se non lunghissimi, in una contemporaneità in cui siamo continuamente soffocati da un presente che sembra allargarsi sempre di più senza portare da nessuna parte, iniziative di questo genere, che nella loro vastità temporale e concettuale si rivolgono a tempi storici lenti ma più profondi, risulta come una vera e propria boccata di aria fresca.

Tsuchimoto Noriaki, Minamata: The Victims and Their World (1971) una pietra miliare del cinema documentario giapponese

Minamata_Victims

Here the English version

Regia: Tsuchimoto Noriaki. Fotografia: Otsu Koshiro. Produzione: Higashi Production. Produttore: Takagi Ryutaro.
Durata: 120’. Anno: 1971.
Reperibilità: DVD Zakka Films

Tsuchimoto Noriaki entra in contatto per la prima volta con la realtà di Minamata nel 1965 quando realizza un documentario per la televisione, Minamata no kodomo wa ikiteiru, ed inizia a calarsi in quella che nel corso degli anni sarebbe diventata l’avventura della sua vita, non solo artisticamente parlando. Tsuchimoto nato nella prefettura montuosa di Gifu, nel 1970 ritorna nell’isola meridionale di Kyushu per scoperchiare quella scatola degli orrori, ed è l’orrore del sistema non quello dell’incidente di percorso, che è stata e continua ad essere, per quanto gli stessi abitanti del luogo vogliano dimenticare, la città di Minamata. Luogo e teatro di uno dei più grandi avvelenamenti perpetrati dall’uomo verso sé stesso e l’ambiente, il nome della città rimarrà per sempre legato all’industria chimica di Chisso che dal 1932 al 1968 riversa nel mare, come materiale di scarto, quantità enormi di mercurio. Il metallo entra nella catena alimentare e finisce per causare la cosiddetta malattia di Minamata (Minamata-byō) che nel corso degli anni colpisce più di diecimila persone uccidendone quasi duemila, ma questi sono solo numeri di superficie, i danni e gli effetti di questa tragedia non sono sempre quantificabili e legalmente dimostrabili ed è questa un’ulteriore tragedia che lascia coloro che ne sono colpiti ancora più umiliati.
Fin dapprincipio però Tsuchimoto si accorge come molte delle famiglie rifiutano di lasciarsi filmare dopo che i media, già all’epoca, avevano sfruttato la tragedia ed il dolore delle persone per creare spettacolo. In più, in molti abitanti dell’area colpita era presente un contrastante sentimento di odio e gratitudine verso la Chisso che grazie al complesso industriale costruito nelle zone aveva sollevato, almeno secondo alcuni, dalla povertà la popolazione locale. Conscio di tutte queste condraddizioni Tsuchimoto riesce a realizzare un vero e proprio capolavoro di equilibri, da una parte la rabbia con cui smaschera i processi con cui la modernità si evolve nell’arcipelago giapponese e nel particolare nella zona di Minamata schiacciando i ceti inferiori, dall’altra l’umanesimo con cui riesce sempre a presentare le vittime e a dare loro dignità.
Il film inizia con lo sciabordio dell’acqua e una barca di pescatori da sola in mezzo al mare, l’acqua che dà la vita alla comunità dei pescatori ma che allo stesso tempo, inquinata dal mercurio, le vite le distrugge. Il bianco e nero nelle scene, liriche, tramuta il blu del mare nell’argento del mercurio portatore di morte. Il fuori sincrono delle interviste (dovuto probabilmente alle limitazioni tecniche) costringe Tsuchimoto ad inventarsi un montaggio di immagini che scorrano sulle parole, pianti e grida delle vittime e dei loro familiari. La bellissima musica poi in alcune scene contribuisce a creare quell’epopea della vita dei pescatori e della loro comunità, per esempio nelle scene di pesca del polpo da parte di un anziano pescatore che ha perso la moglie a causa della malattia.

Le foto dei deceduti, bambini di meno di cinque anni e di una ragazza nel fiore dei suoi anni scorrono con il sonoro delle parole delle loro famiglie, sono immagini che muovono lo spettatore, molto forti ma allo stesso tempo molto empatiche, la bravura di Tsuchimoto e del direttore della fotografia Otsu Koshiro sta proprio nel rispetto verso il soggetto filmato, le immagini in bianco e nero pongono poi un certo filtro verso lo spettatore e non si soffermano mai con morbosa volontà su coloro che parlano, evitano di usare il dolore cioè come eccitante per coloro che guardano. Si vedono comunque dei bambini e un giovane ragazzo malati e sono scene strazianti, la bava, i movimenti spastici, l’autosufficienza negata e la difficoltà di comunicare, ma la mdp li segue con leggerezza e rivelando sì il loro dolore e quello dei familiari, ma rispettandoli e rivelando la loro dignità di esseri umani. Sono proprio questo equilibrio e questa cura ed attenzione verso il debole ed il diverso alcuni dei più alti conseguimenti del cinema di Tsuchimoto e che raggiungeranno forse il loro coronamento in The Shiranui Sea (1975), sempre dedicato alle vittime di Minamata.
Strutturalmente il lavoro è composto da interviste alle vittime, ai genitori ed ai parenti di coloro che sono stati colpiti dalla malattia che raccontano la loro vita di ogni giorno, una quotidianità che gira attorno al mare ed il doloroso ricordo dello scomparso. A queste scene sono intervallate altre di vita nel mare dei pescatori, le loro abitudini e tradizioni, e scene di riunioni e comizi in piazza per protestare contro la Chisso e lo stato che ha aiutato a coprire il crimine perpetrato. Nella seconda parte del documentario vediamo il viaggio delle vittime e dei loro familiari verso Osaka ed è importante perchè la processione per le strade della città è diretta verso l’ufficio centrale della Chisso ma anche perchè Osaka è la città che ospita nello stesso anno, il 1970, l’Expo, evento che assieme alle Olimpiadi di Tokyo del 1964 sancirà la definitiva apertura del Giappone al mondo dopo la sconfitta bellica e l’accettazione del paese asiatico nella modernità occidentale. L’incontro fra i vertici della Chisso e la rappresentanza di Minamata sfocia in cacofonia e quasi in una rivolta, persone invadono il palco accerchiando il presidente ed il suo staff quasi a voler distruggere quella verticalità fra saibatsu e popolo sfruttato che ha contraddistinto la tragedia. Ancora una volta qui, come nei documentari coevi di Sanrizuka della Ogawa Pro, l’anima della protesta è femminile con le donne e le madri che nel dolore immenso per una vita distrutta aggrediscono verbalmente il presidente della Chisso. Il film si conclude con le immagini di pesca e col sottofondo musicale dei canti tradizionali di Minamata cantati dalle vittime e da tutte le persone del villaggio. Inizia con questo film come si diceva più sopra una vera e propria missione per Tsuchimoto che nell’arco di tutta una vita fino alla morte avvenuta nel 2008 dedicherà alle vittime di Minamata ben 14 documentari.

Minamata_Victims_DVD

In un panorama internazionale in cui i documentari provenienti dall’arcipelago giapponese reperibili sono davvero pochissimi, è un fatto non secondario che il film, assieme anche al già citato The Shiranui Sea, sia disponibile in DVD con sottotitoli in inglese presso Zakka Films.
(Un grazie di cuore a\Special thanks to Ono Seiko and Tsuchimoto Motoko)

Narita: Heta Village (三里塚 辺田部落, 1973)

IMG_3069.JPG

Una piccola segnalazione, sul sito Ildocumentario.it nella rubrica Corrispondenze potete trovare un mio scritto su Heta Village, uno dei lavori più importanti creati dall’Ogawa Pro ed un documentario di immenso valore per capire quello slittamento di prospettiva (anche epistemologica) che avviene in Giappone intorno alla metà degli anni settanta, anche se il film è del 1973. Un lavoro che preconizza molte delle tendenze che sarebbero poi arrivate successivamente, un documentario anti-spettacolare ma dal valore estetico e storico incommensurabile:

“Nel primo lavoro della Ogawa Pro che abbiamo analizzato, Summer in Narita del 1968, la macchina da presa si buttava letteralmente nella mischia delle lotte di resistenza contro la costruzione dell’aeroporto di Narita. L’occhio guidato da Tamura Masaki e Otsu Koshiro seguiva l’azione ed in molti casi provocava quasi sfrontatamente le forze di polizia puntando loro contro, come se fosse un’arma, la cinepresa. Era un documentario quello, costruito con una grammatica squisitamente cinematografica, montaggio, primi piani, commento e, soprattutto nel finale, anche con un uso extradiegetico della musica, un raffinato racconto, molto di parte certamente, della lotta dei contadini della zona. Con Heta buraku ci spostiamo in tutt’altra dimensione, Ogawa ed il suo collettivo decidono di fare un passo indietro rispetto all’azione e di rivolgere il loro sguardo verso il tessuto che costituisce il villaggio, le abitudini e le conseguenze di questa resistenza oramai portata avanti da quasi un decennio.
La primissima immagine con Ogawa Shinsuke stesso che…..(continua qui)”

Sight & Sound best documentaries – una prospettiva giapponese

IMG_3055.JPG

Lo scorso settembre la rivista britannica Sight and Sound ha pubblicato il risultato di una votazione, anzi due, una fra critici e studiosi di cinema e l’altra fra registi, per determinare i migliori documentari di ogni tempo. Al di là di tutte le critiche che possono essere rivolte ad iniziative di questo genere, la votazione dei critici è stata interessante perchè ha dato un certo risalto (non molto in realtà) alla produzione documentaristica/non fiction estremo orientale con il primo lavoro, West of the Tracks (2002) del cinese Wang Bing, al 17simo posto e The Emperor’s Naked Army Marches On (1987) del giapponese Hara Kazuo al 23esimo.

IMG_3034.JPG
Sfogliando la bella rivista però è possibile imbattersi in molte opere provenienti dall’arcipelago nipponico, citate nelle loro 10 best list da molti studiosi e critici e la qual cosa non può che far bene. Al di là del valore e della riuscita di un film come The Emperor’s Naked Army Marches On, personalmente di Hara preferisco Extreme Private Eros: Love Song 1974, va notato però che si tratta di uno dei documentari giapponesi più visti e proiettati all’estero (anche grazie alle parole sul film espresse da Michael Moore) e che di quasi tutte le opere del regista nipponico esistono anche i DVD con sottotitoli in inglese. Questo non vuole sminuire un’opera così importante e riuscita certo, ma va gettato uno sguardo un po’ più ampio su questi risultati.
Per esempio, dei film di Ogawa Shinsuke, meglio chiamarli della Ogawa Pro, non esistono DVD per il mercato internazionale ed in giapponese c’è solo Summer in Narita (1968) e questo perchè Ogawa ed il suo collettivo hanno lasciato un buco di milioni e milioni di yen che preclude per ora operazioni di restauro e transfer in DVD. Anche di uno dei padri fondatori del documentario giapponese come Kamei Fumio, attivo sia prima che dopo la Seconda Guerra Mondiale, non esistono DVD per il mercato internazionale mentre va detto che i suoi film sono stati proiettati in alcune manifestazioni. Il collettivo NDU e Nunokawa Tetsurō poi sono un oggetto oscuro anche in patria, ma la loro produzione e traiettoria artistica e tanto importante quanto gli altri nomi citati prima più sopra. Insomma la disponibilità e l’esposizione di documentari giapponesi degli anni passati rimane davvero minima se confrontata con la cinematografia “classica” dell’arcipelago (Mizoguchi, Kurosawa, Ōshima, Yoshida, Kitano, ecc.).
Detto questo, fa indubbiamente piacere vedere citati tanti di questi autori (Ogawa, Tsuchimoto, Hara, Kamei) in alcune liste individuali stilate dagli studiosi e dai critici, che sia un buon auspicio per un futuro in cui il documentario giapponese e quello estremo orientale in generale, possano essere studiati ma soprattutto conosciuti e visti in maniera più estesa di quanto non succeda oggi.